Aldrovandi, terminato il processo, un appello contro gli abusi delle forze dell’ordine

E’ un fatto assodato che una normativa eccessivamente repressiva, miope ed ingiusta, nei confronti dei consumatori di sostanze dia adito alla violenza nelle menti distorte di zelanti tutori dell’ordine. La violenza in un sistema proibizionista è lo strumento di controllo principe, è praticata nella lotta fra tutori dell’ordine e trafficanti o spacciatori, quest’ultimi spesso “vittime” a loro volta del mercato illegale delle sostanze, la cui valenza, soprattutto nel caso del “piccolo spaccio” è quella di “carne da macello” per le forze dell’ordine e “bassa manovalanza” – dunque sacrificabile –  per le organizzazioni criminali che lo gestiscono. Senza scalfire di un millimetro tale  egemonia, anzi, rafforzandola. Ma la violenza colpisce duramente anche coloro i quali si trovano nel mezzo delle due fazioni e al pari di un conflitto – perché di guerra si tratta, la “guerra alla droga” – a farne le spese sono i consumatori – o presunti tali – di sostanze ritenute illegali ma rese largamente disponibili in nome di un profitto che non interessa solo le economie mafiose. Coloro i quali si trovano ad essere più vicini a chi è colpito ma in seconda battuta l’intera  società, sono vittime indirette del proibizionismo, al pari di una vendetta che lambisce concetti nemmeno troppo astratti di nemesi storica. Il proibizionismo ogniqualvolta ferisce innesca una faida che si riflette su famiglia, amici, conoscenti, attraverso danni che vanno al di là di quelli diretti. Genera mutazioni nell’intera società che vanno dalla negazione dei diritti fondamentali alla produzione di elementi patogeni quali stigma e discriminazione. Succede, è successo ma sta ad ognuno di noi lottare perché non debba più accadere.

Dopo la lunga e interminabile scia di morte cui assistiamo in nome del proibizionismo (Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Ales, Lonzi, Mercuriali, Eliantonio, Uva, Ferulli e tanti, troppi altri) si è giunti alla sentenza definitiva del processo che vedeva imputati quattro agenti di polizia accusati dell’omicidio colposo di Federico Aldrovandi. Una pena, si è detto da più parti, che non riflette la perdita di una vita – e mai potrebbe, perlomeno in termini umani –  ma che ancor più svela la deriva di un sistema giudiziario che a fronte di tre anni e sei mesi di reclusione per gli agenti si sente in diritto di comminare pene simili, se non maggiori, a chi è reo di “spaccio di lieve entità” le cui modalità di individuazione vanno, in prima battuta, dalla detenzione di un quantitativo superiore alle soglie previste alla cessione e poi all’effettivo reato di vendita di stupefacenti.

Ciò che indigna maggiormente non è solo la sproporzione delle pene, la difficile valutazione di quanto dovrebbe scontare chi si macchia di un omicidio, tantomeno si vuole inneggiare al giustizialismo anzi, pur pervasi dalla rabbia ci si ritrova contrari alla funzione punitiva primaria della carcerazione. Ciò che indigna è che nemmeno dopo simili episodi non si debbano ricercare i mandanti ed agire preventivamente attraverso una completa revisione delle leggi, tanto quelle che “permettono” questi crimini quanto quelle che le ispirano.

In particolare, la gravità di un simile atto si riscontra nella funzione che gli imputati dovrebbero assolvere che da sicurezza, intesa quale tutela delle persone, si tramuta in criminalizzazione e repressione violenta. Per tale motivo, un primo passo è stato compiuto con la richiesta di firmare l’appello promosso dalla famiglia di Federico e dal comitato Verità per Aldro, in cui si chiede:

  • che i quattro poliziotti, condannati ora in via definitiva, vengano estromessi dalla Polizia di Stato, poiché evidentemente non in possesso dell’equilibrio e della particolare perizia necessari per fare parte di questo corpo;
  • che venga stabilito in maniera inequivocabile che le persone condannate in via definitiva, anche per pene inferiori ai 4 anni, siano allontanate dalle Forze dell’Ordine, modificando ove necessario le leggi e i regolamenti attualmente in vigore;
  • che siano stabilite, per legge, modalità di riconoscimento certe degli appartenenti alle Forze dell’Ordine, con un numero identificativo sulla divisa e sui caschi o con qualsivoglia altra modalità adeguata allo scopo;
  • che venga riconosciuto anche in Italia il reato di tortura – così come definita universalmente e identificata dalle Nazioni Unite in termini di diritto internazionale – applicando la Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 contro la tortura e le altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti, ratificata dall’Italia nel 1988.

Vai all’appello e firma on line o invia una mail a appello@giustiziaperaldro.it

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