Tredici anni fa siamo partiti da una provocazione il cui scopo era quello di squarciare il velo di ipocrisia proprio del proibizionismo, denunciare le pratiche assassine di uno stato che con una legge vieta la libertà di autodeterminare le proprie scelte ma la cui politica rende possibile comprare ed assumere qualsiasi sostanza. L’importante è che rientri nella logica consumistica, ove le scelte non sono libere ma indotte, esasperate e spesso prive di qualsivoglia coscienza ed autocontrollo, soprattutto in menti poco inclini alla critica, strumento dialettico che sempre più si vorrebbe reprimere nel nome dell’omologazione finalizzata al profitto (dei pochi). L’esperienza estatica del consumo è sfruttata ad arte per fini di controllo sociale e poco importa che i danni generati vadano a discapito dell’intera collettività, minando la diffusione di anticorpi naturali in grado di limitare i rischi di abusi e dipendenze, ma soprattutto aumentandone notevolmente la portata attraverso la repressione ed il carcere per i singoli consumatori e alimentando la criminalità che costituisce un male non necessario per l’intera società. Tuttavia, sebbene il consumo di sostanze abbia assunto proporzioni di massa, pur gravato dall’azione deleteria delle logiche proibizioniste, è ormai chiaro come nella maggioranza dei casi si risolva in consumi affatto problematici o nella remissione degli stessi.
La guerra alla droga, iniziata per meri fini di protezionismo economico si è evoluta attraverso la spettacolarizzazione dei consumi in uno strumento di controllo sociale e di gestione occulta degli introiti economici che ne derivano. In un simile scenario, l’attività utilizzata per garantire gli obiettivi ha una sola declinazione: la violenza.
La violenza in un sistema proibizionista è lo strumento di controllo principe, è praticata nella lotta fra tutori dell’ordine e trafficanti, quest’ultimi spesso “vittime” a loro volta del mercato illegale delle sostanze, la cui valenza, soprattutto nel caso del “piccolo spaccio” è quella di “carne da macello” per le forze dell’ordine e “bassa manovalanza” – dunque sacrificabile – per le organizzazioni criminali che lo gestiscono. E la repressione operata non sposta di un millimetro tale egemonia, anzi, la rafforza. Ma la violenza colpisce duramente anche coloro i quali si trovano nel mezzo delle due fazioni e al pari di un conflitto – perché di guerra si tratta, la “guerra alla droga” – a farne le spese sono i consumatori – o presunti tali – di sostanze ritenute illegali ma rese largamente disponibili in nome di un profitto che non interessa solo le economie mafiose. Coloro i quali si trovano ad essere più vicini a chi è colpito ma in seconda battuta l’intera società, sono vittime indirette del proibizionismo, al pari di una vendetta che lambisce concetti nemmeno troppo astratti di nemesi storica. Il proibizionismo ogni qualvolta ferisce innesca una faida che si riflette su famiglia, amici, conoscenti, attraverso danni che vanno al di là di quelli diretti. Genera mutazioni nell’intera società che vanno dalla negazione dei diritti fondamentali alla produzione di elementi patogeni quali stigma e discriminazione, all’intromissione e sconvolgimento dei naturali processi autoregolativi nelle persone.
Nell’odierno e desolante panorama che le istituzioni nostrane ci costringono a subire, i germi patogeni si moltiplicano nelle forme ristrette ed ottuse del riduzionismo scientifico creando una falsa dottrina asservita alla morale ed all’ideologia proibizionista, ove pratiche consolidate di riduzione del danno, pregne di evidenze nel raggiungimento degli obiettivi si vorrebbe non trovassero spazio alcuno nella gestione e soluzione dei consumi problematici. Ma, anzi, rendendo potenzialmente problematici tutti quei consumi che “naturalmente” non lo sarebbero.
La nostra risposta, oggi come ieri, consiste nel portare avanti la pratica dell’autoproduzione e la logica della condivisione per contrastare l’ottuso paradigma della legalità che produce il fenomeno globalizzato del narcotraffico ed un’ideologia che si vorrebbe erigere quale giudice delle nostre esistenze imponendo falsi miti – quello della “droga” – e falsi dei – medici e neuroscienziati proibizionisti. Una atto che attraverso la condivisione unisce gli “sguardi” in medesimi progetti, moltiplica l’esperienza liberatoria di cui è portatrice, annientando ogni logica di profitto e velleità di controllo sui corpi e le menti di chi vi prende parte.
Questo è il valore interiore che ci spinge a ripetere l’esperienza del raccolto, una festa nella quale poter offrire differenti culture musicali col giusto compenso per gli artisti ma nulla riguardo a ciò che viene consumato, che non va compresa al pari di una distribuzione ma costituisce lo strumento per condividere con gli altri un modello di pensiero.
In tutto ciò, ancora, la novità che questa edizione propone è quella di iniziare una discussione su progettualità future possibili. Ciò che ancora risulta mancante è una completa condivisione delle pratiche, senz’altro dovuta al particolare trattamento riservato alle esperienze di coltivazione domestica nel paese. Che i coltivatori subiscano una repressione così dura ed estesa non fa altro che avvalorare la sensazione che tale pratica colga nel segno la contraddizione più intima del proibizionismo; pur sanzionata dalla normativa vigente alla stregua del commercio di sostanze, non ne incorpora né gli obiettivi né i presupposti. E’ invece una scelta che ha lo scopo di affrancarsi dal mercato criminale, lo stesso che la “legge sullo spaccio” apparentemente si propone di combattere, e fornisce, a chi la mette in pratica, la possibilità di avere un controllo su ciò che assume, passo importante nella formazione e nel consolidamento di una coscienza critica sul consumo stesso.
Senza voler inventare nulla ma coscienti del fatto che nuovamente attraverso la condivisione – delle responsabilità in questo caso – si possa reggere il carico di una lotta che quanto mai oggi appare dura ma affatto impossibile, il modello pratico a cui ci riferiamo sono i Cannabis Social Club proposti da Encod, la coalizione europea per politiche sulle droghe giuste ed efficaci.
Un modello co-operativo slegato dalle logiche di profitto e basato sull’assunzione di responsabilità da parte di ognuno dei membri che ne fanno parte, tanto sugli oneri della coltivazione quanto sui rischi, in particolare quelli legali.
Ciò appare a nostro avviso una delle strade da percorrere, assieme alla diffusione di pratiche di limitazione dei rischi nei contesti naturali di consumo, all’opera di contro-informazione e all’assunzione di una concezione paradigmatica della riduzione del danno nei confronti dei consumi problematici. Questo perché si è decisi a scardinare un altro modello – quello proibizionista – che, nonostante le continue e reiterate prese di posizione a livello mondiale sulle evidenze del proprio fallimento, continua a rappresentare lo strumento di eccellenza nella realizzazione del controllo sociale a discapito della dignità e della parità dei diritti e delle opportunità, nella convinzione che le complicazioni legate al consumo di sostanze appaiono essere significativamente legate alla disuguaglianza e all’esclusione sociale e non costituiscono un problema di ordine pubblico.
Infine, la festa del raccolto di quest’anno vogliamo dedicarla a coloro i quali decidono di curarsi con la cannabis, da sempre considerata pianta terapeutica in grado di mediare dolori neuropatici ed efficace per una molteplicità di patologie. Consideriamo imprescindibile il diritto alla cura e la scelta della stessa, ma osserviamo che malgrado le evidenze scientifiche e per una questione prettamente culturale, si fa ancora fatica in Italia a prescrivere a chi ne ha bisogno farmaci a base di cannabis, nonché le infiorescenze stesse. E’ invece fortemente presente nei servizi la tendenza a medicalizzare i consumi di sostanze, come se i farmaci a mantenimento potessero rappresentare il rimedio universale contro gli abusi e le dipendenze, con evidente grande profitto delle lobby farmaceutiche e a discapito della salute e dell’integrità dei consumatori. Ed è proprio per i malati che si curano con la cannabis che abbiamo intenzione di attivare una rete informale che sia in grado di rispondere alle loro esigenze, ancora oggi purtroppo negate nonostante la presa di posizione in loro favore di alcune regioni italiane.
30 novembre 2012, Csoa Gabrio