Fonte: Il Fatto Quotidiano
di Susanna Marietti (Antigone)
Ci sono poche cose che conosco a fondo e sulle quali ho competenza, come credo capiti più o meno a ciascuno di noi. Sulle altre sono costretta a seguire le inchieste giornalistiche con maggiore passività, e spesso finisco per non sapere a chi dare ragione. Accade che ogni volta che guardo una puntata di Report su un argomento che conosco bene scopro una trasmissione realizzata con tesi assertorie, lontane dal livello di civiltà giuridica che vorrei in questo Paese, con la controparte ridicolizzata e privata di parola. Mi è successo ieri sera, davanti alla puntata di Report che proponeva il lavoro obbligatorio per i detenuti.
Innanzitutto va detto che, storicamente, i primi a contestare il lavoro gratuito dei detenuti sono sempre stati i lavoratori liberi. Infatti, chiunque preferirebbe assumere al loro posto un detenuto che non deve pagare. Tentare di mettere in competizione le brave persone che faticano a trovare lavoro e i detenuti che addirittura pretendono lo stipendio per lavorare è di certo strumentale. La vera competizione si creerebbe davanti a un detenuto non retribuito, ben più conveniente di un cittadino libero per un datore di lavoro.
In secondo luogo, il lavoro gratuito ma volontario – di pubblica utilità – è già oggi previsto dalla legge, come anche ieri a Report si diceva. Perché ha solo 250 applicazioni? È colpa del Comune di Roma o del Comune di Milano? Io non credo. Negli ultimi decenni si è sempre assistito a una grande parsimonia da parte della magistratura di sorveglianza e dell’intero sistema alla concessione ai detenuti delle misure alternative e della possibilità di lavorare fuori dal carcere. L’ordinamento italiano è pieno di possibilità, per reati non ostativi, di far interagire il detenuto con l’ambiente esterno – sempre secondo un rigido programma del magistrato e senza che ciò si trasformi in una non pena – anche nell’ottica che la responsabilizzazione e la non totale rescissione dei legami sociali siano convenienti per l’intera collettività, in quanto allontanano il detenuto da scelte devianti e comportano, come dimostrato dai numeri, un tasso inferiore di recidiva, diminuendo i reati commessi e aumentando dunque il tasso di sicurezza del Paese.
In terzo luogo il lavoro gratuito e obbligatorio, oltre a togliere mercato lavorativo ai cittadini liberi, è un vero abominio concettuale per una società democratica. Qualsiasi lavoro, per qualsiasi cittadino, non può che prevedere tutte le garanzie costituzionali che una Repubblica fondata sul lavoro promuove. È inammissibile pensare altrimenti e proporlo da una televisione dello Stato. I lavori forzati non possono mai essere un’opzione. Report affermava che un detenuto ci costa 4.000 euro al mese. Non diceva però che la maggior parte di esse è costituita da spese fisse (personale, manutenzione delle strutture, ecc.) e non si elimina togliendo dal carcere un singolo detenuto. Ma è impensabile far pagare al detenuto anche la quota di spesa realmente pro capite. Fa pensare a quei film western nei quali si chiede al condannato a morte di scavare la propria tomba. Vorrebbe dire tornare concettualmente indietro al pre-illuminismo. La pena nelle società moderne vuole avere un senso, una direzione. Il lavoro del detenuto deve servire quale strumento di emancipazione, per far sì che la persona possa distaccarsi da una vita criminale. Farlo lavorare gratis e forzatamente significherebbe fare un doppio danno alla cittadinanza: concorrenza lavorativa sleale e sicurezza messa a rischio da tassi di recidiva inevitabilmente più alti.
Si avvicina il 10 di dicembre, giornata internazionale sui diritti umani. La dignità dell’uomo – di ogni uomo – è il fondamento ultimo di tutti i diritti. I lavori forzati significano dignità calpestata. La Dichiarazione universale dei diritti umani è una cosa seria: non vale la pena di mandarla al macero per lanciare una puntata in prima serata.