Kappa Futurfestival e consumo consapevole

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Il 13 e 14 luglio a Torino si è svolto, per il secondo anno consecutivo, nell’area del Parco Dora il Kappa Future-Festival 2013. A torto o ragione, questo rave-party legale, tutt’altro che “free” (costi da 35-40 euro a serata, e 55 per entrambe) viene presentato come  l’evento di musica elettronica italiano più importante dell’anno. Dalla sua comparsa, rivendica il marchio di festival musicale “intelligente”, contrapposto a quell’idea di festa tutta “musica, alcol e droghe”. Se non bastasse, a mettere enfasi a tale marchio s’è messo pure il Presidente Napolitano che ha insignito il rave-imprenditore Maurizio Vitale (che fa coppia con Gigi Mazzoleni nell’ideazione dell’evento) di un’onorificenza pubblica per il suo impegno nella campagna di sensibilizzazione a favore del divertimento consapevole. Nulla da eccepire riguardo tali obiettivi, stride un poco la creazione di un “sigillo di riduzione del danno” legato ad un festival promosso da un’azienda privata che nel contempo promuove il proprio di marchio (Robe di Kappa, appunto).

La riduzione del danno, uno dei pilastri fondamentali di serie strategie di contrasto a abusi e dipendenze, non è ristretta a mere azioni di supporto a coloro i quali si trovano in situazioni di consumo palesemente a rischio e nemmeno – come ad esempio vorrebbe il nostrano Dipartimento per le Politiche Antidroga – si può contenere all’interno di una supponente “Prevenzione delle patologie correlate”, nome coniato proprio dall’esimio dipartimento con lo scopo di svuotare di contenuto e limitare le pratiche in questione. E’ soprattutto in una visione paradigmatica di tale pilastro e attraverso le azioni di limitazione del rischio unite alla relazione costruita con i consumatori e con la collettività che nasce il concetto di consumo consapevole. Di più, la riduzione del danno concepita quale paradigma contro abusi, dipendenze e rischi derivanti dall’assunzione, contamina i restanti pilastri e li trasforma. La repressione nei confronti dei consumatori diventa lotta al narcotraffico, quello vero, reale; è evitato quel processo di detenzione sociale che porta al conseguente collasso delle carceri senza minimamente scalfire gli enormi interessi generati – che sono mafiosi quanto politici e certamente su scala globale. Soprattutto, si pone quale obiettivo il concetto di una vita degna per tutti, consumatori e collettività in un rapporto che li vede attori della medesima realtà e non soggetti differenti da punire o tutelare.

Allo stesso modo, anche la nostra critica ha origini paradigmatiche, nel senso che ci chiediamo se un modello imprenditoriale (il paradigma, appunto) abbia il diritto – e quanto possa effettivamente riuscire – nel conseguimento di un’azione educativa qual è la promozione di un consumo consapevole. Da più parti viene, infatti, denunciato come il consumismo abbia una non trascurabile responsabilità nel cambiamento degli stili di consumo, coadiuvato da leggi che non discriminano più tra sostanze il cui rischio è – da sempre – incomparabile, non di meno, da vere e proprie strategie di marketing delle mafie che rendono disponibili quelle sostanze che massimizzano i profitti. Al pari delle logiche del mercato legale, che è a sua volta “drogato” dall’ingente mole di denaro veicolato da quello non legale. E del quale l’azienda promotrice del festival ne è parte.

Questo ragionamento non vuole essere un’accusa a un’azienda che si propone di pubblicizzare il proprio marchio attraverso un festival di musica elettronica e che nello stesso tempo tenta di proporre un’idea “propria” di consumo consapevole. Questo, è un ragionamento sulle logiche impiegate e i conseguenti obiettivi raggiungibili.

Ciò che non torna sono aspetti reali della vicenda, quali l’esigenza di far pagare un biglietto dai costi eccessivi, proibire l’ingresso di cibo e bevande – anche e soprattutto della semplice acqua – e l’utilizzo di “controllori” pubblici per garantire l’interesse di un soggetto privato. Un’ottima operazione di marketing che garantisce all’azienda di promuovere il proprio marchio limitando le spese o addirittura realizzando un guadagno. Che è lecito nell’odierna economia di mercato, vantaggioso per gli enti patrocinanti – particolarmente in tempo di recessione – che figurano quali promotori di un guadagno per quell’indotto che va dai trasporti ai pernottamenti in una logica definita dagli stessi organizzatori a “impatto zero” su finanze e ambiente. E che, secondo le stesse istituzioni, proprio per tale motivo va facilitata. Ma che si oppone nei modi a reali pratiche di limitazione dei rischi. A partire dall’acqua che era doveroso distribuire gratuitamente; al contrario è stato impedito dagli stessi vigili del fuoco di poter usufruire delle fontane pubbliche. Poiché mancava un’adeguata zona di decompressione durante lo svolgimento della manifestazione ma soprattutto al termine di questa. E che i pericoli costituiti da vie di accesso adiacenti non fossero monitorate con la cautela adeguata.

Certo è che d’impatto zero non è possibile parlare per quanto riguarda le finanze dei partecipanti. Per quel che interessa la propria sicurezza, le modalità impiegate lasciano molto a desiderare e a parte ciò che si sbandiera con tanto di “vessillo presidenziale” non è possibile non rilevare come a questa venga anteposta una questione economica. Quest’ultima, certamente realizzata e doverosamente da attuare, perché rappresenta la reale sintesi, il vero obiettivo della manifestazione.

Gli organizzatori del Kff affermano di indurre un consumo consapevole attraverso dei margini imposti agli orari (da mezzogiorno a mezzanotte) e limitando le dosi di alcol distribuite in ogni consumazione. S’istituiscono delle regole, ma quanto ciò che dovrebbe essere consapevole e quindi interiorizzato da ogni consumatore può essere realizzato quando le regole vengono imposte? Neppure le norme antidroga che vorrebbero una diminuzione dei consumi, pur attraverso un’intensificazione dei controlli – molto discutibili tanto nel merito quanto nelle modalità di attuazione – hanno realizzato gli obiettivi preposti. Inoltre, nello specifico, chi dispone di maggior denaro potrebbe assumere comunque più alcol, con buona pace degli organizzatori, i quali premiano una logica che al più “educherebbe i poveri” ma in realtà induce a consumare maggiormente coloro i quali si prepongono l’obiettivo di “sballare”. Pertanto, non si tutela la categoria maggiormente a rischio, nello stesso tempo si aumentano le quote d’incasso delle bevande.

Ancora, quanto è lecito e utile contrapporre eventi che garantiscono la sicurezza dei partecipanti – più a parole che nei fatti, perlomeno a giudicare da quello appena svolto – e quanto non sia più efficace garantire un opportuno supporto a tutti gli eventi anche quelli autorganizzati. Nota la grossa partecipazione e numero di questi ultimi è miope pensare di destinare censura e repressione a quelli rei di una supposta illegalità, anziché puntare sulla sicurezza di ogni partecipante a una festa e facilitare quel processo di accrescimento delle abilità personali che sostengono la piena realizzazione di un consumo consapevole.

L’azione professionale di limitazione dei rischi è stata delegata a un progetto pubblico, Pin, del quale sono note le competenze ma che è chiamato a confrontarsi con un numero esagerato di partecipanti per un numero esiguo – se non addirittura singolo – di occasioni simili. Per svolgere un’azione educativa, il tempo dedicato alla relazione con i partecipanti diventa piuttosto trascurabile e nemmeno può costruirsi un’azione di peer-education efficace, che al contrario esiste e funziona nei free-party raggiunti da equipe volontarie, che pur nelle difficoltà di gestire un supporto, da anni, ormai, lo garantiscono. Che non può arrivare ovunque e che non è considerato come una risorsa, anzi spesso è osteggiato. Nella totale o quasi mancanza di equipe garantite dal servizio pubblico che preferisce affidarsi unicamente alla repressione nella gestione di tali eventi e con risultati alquanto deludenti.

Già, perché il parallelo con i free-party è d’obbligo; non fosse altro perché tale formula rappresenta l’origine, gli eventi come il kff, una mutazione conseguente all’adozione di un particolare modello economico ma tanti rave-party una deviazione da quella stessa origine. Sono identiche le ragioni per cui ci vorrebbe la presenza di un supporto riconosciuto dai partecipanti. Che, va doverosamente rilevato, non sono criminali ma in una buona parte le stesse persone che accorrono a eventi come il Kff.

Certo, diversi sono gli organizzatori. Tra quelli “illegali” non è trascurabile il numero di “sound” che ricercano un supporto atto a garantire la costruzione di una “chill-out”, un primo soccorso e a gestire pratiche di limitazione dei rischi. Promuovono raduni che si rifanno ai concetti originali dei free-party, dove l’uso di sostanze era un corollario della festa e l’aspetto economico doveva al più garantire lo svolgimento di quella successiva. Si oppongono attraverso la realizzazione di una zona temporaneamente autonoma a logiche dominate unicamente dal profitto.

E forse, proprio per questo danno fastidio, al pari di quelli che i free-party li organizzano per scopi assolutamente diversi, dove i tratti originali sono ormai troppo sfumati, nei quali i partecipanti scambiano la libertà di creare un momento di liberazione collettiva con quella di perseguire un “divertimento nichilista”, dove il rispetto viene meno anche per se stessi. Anche in tal caso la repressione non costituisce una soluzione, al contrario ne accentua gli elementi negativi.

Infine, non si vuole speculare su ciò che è accaduto al termine; ci vuole rispetto per chi non ha più la possibilità di provare a realizzare sogni e speranze. Non crediamo tutti che tale diritto sia proprio di chiunque? Certamente anche di chi in maniera simile o differente la propria vita la perde alle feste autorganizzate o senza precedenti autorizzazioni né patrocini altolocati? Eppure, nel secondo caso, troppo spesso si criminalizza il contesto, lo si ritiene responsabile quando ancora non aleggia lo stigma nei confronti della stessa vittima. In entrambi casi… sempre un ragazzo.

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