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Forze dell’ordine che implementano un modello puramente repressivo a fronte di reati di lieve entità. Aumento delle carcerazioni per reati di droga e passaggio obbligatorio dal carcere anche nel caso di misure alternative. Una crociata anti-cannabis sempre più palese e un evidente tentativo di punire stili di vita ritenuti devianti. Una mole assurda di denaro destinato ai controlli e strappato ai programmi di prevenzione, a fronte di risultati nei test su strada e sul lavoro che smentiscono la pandemia propagandata dal DPA. Rifiuto della riduzione del danno, a partire dal lessico. Questo, in sintesi, il risultato dell’indagine condotta da Forum Droghe, CNCA, Antigone e Società della Ragione e giunta alla sua quinta edizione, che mostra i danni provocati da sette anni di applicazione della Fini-Giovanardi.
Quando si rompe un vaso rimangono i cocci, così, quando una legge viene definita illegale, come nel caso della Fini-Giovanardi, si possono seguire due strade: l’una, tentando di riattaccare i cocci come la ministra Lorenzin ha provato a fare col suo decreto, senza peraltro riuscirvi; l’altra spazzando via i cocci, cosa difficile da fare e che richiede ancor più perizia.
Già, perché in questo caso, i cocci sono la metafora di quell’ideologia che ha generato inutili e dannose logiche securitarie attuate con i controlli, repressione e carcerazioni. Operazione ardua perché le energie che le hanno generate sono tutt’altro che finite e perché lungo questi sette anni, molti hanno aderito a un impianto costruito col riduzionismo e le mistificazioni scientifiche.
A partire da chi la legge la deve far rispettare e che sempre più si è sentito legittimato nella pratica della caccia alle persone che usano sostanze. L’assurdo, poi, sta nel fatto che mai l’uso di sostanze illegali ha rappresentato un reato, nemmeno quando era in vigore la Fini-Giovanardi. Eppure, il carcere, ancora rappresenta una risposta per chi ha problemi di dipendenza.
Lo stigma, nei confronti di chi usa sostanze, non è solo aumentato ma convenientemente alimentato, generando comportamenti che in un numero di casi assolutamente inaccettabile hanno portato alla morte violenta di coloro i quali erano stati fermati e arrestati.
Si arriva a capire quanta perizia sia necessaria per un reale cambiamento proprio quando ci si accorge del contenuto del vaso, formato di tutte quelle persone la cui esistenza è stata variamente fatta a pezzettini da una legge illegale. Alcuni – lo abbiamo detto – non ci sono più, per gli altri non è per nulla semplice, tantomeno per quelli che riusciranno a uscire dal carcere.
Apprendiamo – una conferma – dell’aumento di persone segnalate, soprattutto e sempre più per l’uso di cannabis. Una droga che compromette il cervello in modo permanente – che, se fosse vero – il DPA dovrebbe perlomeno essere una fumeria. E invece, niente! Né Serpelloni né Giovanardi pare ne hanno mai fatto uso: questo già basterebbe a scagionare chi invece sceglie di farne. Non basta, quasi la metà delle denunce per violazione all’art. 73 è per cannabis.
La preoccupazione più grande, oltre a non avere ancora una moderna legge sulle droghe al passo con le evidenze scientifiche, che dia il giusto peso all’efficacia dimostrata dalla riduzione del danno e sia realmente orientata alla depenalizzazione, riguarda la necessità, ormai improrogabile, di un cambiamento culturale. Lo sviluppo, cioè, di una riflessione collettiva sul peso che ha l’adozione settennale di leggi illegali e l’importanza, su tutto, della vita e delle scelte delle persone rispetto a norme ideologiche davvero poco distanti da quell’approccio pseudo-religioso col quale furono condotte le antiche crociate.