Crimini e consumo nelle carceri italiane

Queste sono solo alcune delle morti conseguenti agli arresti per reati connessi con le sostanze o di persone con problemi di dipendenza

Ottobre 1992, Prato (FI)

Bruno Bardazzi, 21 anni, di Prato, giovane operaio incensurato fermato e denunciato per presunto spaccio dai Carabinieri che gli trovano 1,7 grammi di hashish. Si è ucciso per la vergogna di una condanna a quattro mesi. L’assassinio di Bruno Bardazzi è cominciato nella primavera del ‘92, quando fu costretto a subire la prima violenza da parte dei Carabinieri: la perquisizione della macchina, la scoperta di un pezzettino di fumo, la denuncia; è continuato nei tribunali; si è precisato con la pubblicazione della notizia della condanna; si è concluso con l’impiccagione.

30 gennaio 2002, Carcere di Poggioreale (Napoli)

Raffaele Montella, 40 anni, napoletano, si impicca. Due giorni prima l’avevano “chiuso” dagli arresti domiciliari, per essersi allontanato dalla sua abitazione; era in attesa di giudizio per reati di droga. I suoi parenti non credono al suicidio: lui, prima di essere riportato in carcere, aveva detto: «Se torno in cella mi ammazzano».

primi mesi 2002, Cremona

Alessandro Maciocia, 25 anni viene trovato in possesso di 2,5 grammi di hashish, ma vicino a lui un minore con 250 gr. Viene arrestato e accusato di “concorso”. Non regge il peso e si suicida con il gas di scarico della propria auto. Lascia un biglietto: «non centro niente».

giugno 2002, Isolabella (TO)

Marco Pettinato, 26 anni, incensurato, abitava a Isolabella, un piccolo comune a 30 Km da Torino. Lavorava al prosciuttificio Rosa ed è presidente della locale sezione della Pro Loco. Nel giugno 2002 su segnalazione di uno “strano via vai” proprio nei locali della Pro Loco, i Carabinieri intervengono ed arrestano Marco perché in possesso di una modica quantità di hashish. Arrestato e denunciato per detenzione ai fini di spaccio, viene condannato a 4 mesi di reclusione. In settembre, si impicca con la propria cintura ad una porta del locale campo di calcio. A trovarlo è la madre.

30 giugno 2002, Carcere di Cuneo

Mauro Fedele, 33 anni, muore in carcere. La versione ufficiale parla di “arresto cardiocircolatorio” ma Giuseppe Fedele, padre di Mauro, lancia accuse contro gli agenti di custodia. «Il corpo di mio figlio è pieno di lividi: ha la testa fasciata e ha segni blu su collo, sul petto, specialmente a destra, come uno zoccolo di cavallo; e poi sui fianchi e all’interno delle cosce, sia a destra sia a sinistra. È chiaro che lo hanno riempito di botte, forse con i manganelli, e che è morto per questo. Chiederemo che un nostro medico di fiducia assista all’autopsia, perché dopo quello che abbiamo visto non possiamo subire passivamente e credere a quello che ci hanno detto e cioè che Mauro è morto per arresto cardiocircolatorio. Il nostro avvocato presenterà una denuncia per omicidio, perché pensiamo che sia morto in seguito ad un pestaggio».

5 ottobre 2002, Ospedale “Fazzi” di Lecce

Sotaj Satoj, 40 anni, albanese, muore nel reparto Rianimazione dell’Ospedale di Lecce dopo tre mesi di sciopero della fame. Gli agenti continuano a piantonarlo per ore, da morto: credevano fosse un éscamotage per tentare la fuga. Era arrivato in Italia su un gommone, attraversando il Canale di Otranto. All’arrivo aveva trovato la Guardia di Finanza, che non aveva creduto fosse un “semplice” clandestino, sbarcato assieme ad altri 50, e che aveva pagato circa duemila dollari agli scafisti. Sul gommone c’era della droga e lui era stato arrestato, assieme ad altri sei connazionali, per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Per ribadire la sua innocenza aveva deciso di adottare l’unica forma di protesta possibile: lo sciopero della fame.

27 novembre 2002, Questura di Roma

Maurizio Scandura, 28 anni, tossicodipendente, muore nella camera di sicurezza della Questura di Roma. Era stato arrestato al termine di un inseguimento culminato con una caduta, sua e dei due poliziotti che cercavano di fermarlo. Dopo la caduta sia Scandura sia i poliziotti erano stati medicati in ospedale e il giovane era stato dimesso con una prognosi di sette giorni, dopo che la TAC non aveva individuato alcun problema neurologico. Invece la mattina seguente i due agenti che avrebbero dovuto scortarlo in Procura, per il processo per direttissima, lo hanno trovato morto.

1 ottobre 2003, Carcere di Livorno

Marcello Lonzi, 29 anni, detenuto tossicodipendente, muore in cella: sarebbe deceduto per collasso cardiaco, dopo essere caduto battendo la testa. La madre non crede a questa ricostruzione e sospetta si sia trattato di un omicidio, anche perché il corpo del figlio era coperto di lividi. Chiede al Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, un aiuto per impedire che «venga nascosta la verità». Marcello Lonzi stava scontando una pena di otto mesi, per un tentato furto, ed era in attesa di usufruire dell’indultino.

2 marzo 2004, Carcere di Firenze

Detenuto marocchino viene ritrovato senza vita nella sua cella, steso nella branda, piegato di lato, con un rivolo di sangue alla bocca. La prima ipotesi che trapela dal carcere fiorentino è quella secondo cui l’uomo sarebbe morto per un’overdose di farmaci. Franco Corleone, garante dei diritti delle persone ristrette nelle libertà personali nel comune di Firenze, afferma: «È un fatto gravissimo, che mostra ancora di più la situazione critica delle carceri».

24 marzo 2004, carcere di Opera (MI)

Andrea Mazzariello, 50 anni, paraplegico e costretto su una sedia rotelle si impicca usando come cappio il cordone di un accappatoio, che usava come vestaglia. Era in carcere dal 10 febbraio, quando era sopraggiunto un definitivo di pena. Vivendo su una sedia a rotelle era stato assegnato al Centro Clinico del Carcere di Opera, ma per motivi ignoti non gli veniva somministrata la morfina, che gli aveva prescritto il suo medico di base prima della carcerazione. Racconta l’avvocato Giuseppe Rapone: «Otto giorni fa sono andato a trovarlo e mi ha raccontato che non gli davano la morfina da quando era stato arrestato, ossia da 42 giorni. La morfina gli era stata prescritta dal suo medico quando era a piede libero, per calmare i dolori lancinanti alla schiena che lo costringevano sulla sedia, per questo si è tolto la vita».

24 giugno 2004, Vigodarzere (PD)

Cristian Brazzo aveva 21 anni, faceva l’operaio e viveva a Vigodarzere, un comune alle porte di Padova. Una sera d’estate come tante altre, gli amici, la macchina e tre grammi di hashish. Poi qualcosa va storto, un controllo di routine dei carabinieri, il sequestro del “fumo”, l’accompagnamento in caserma. Nulla di grave, nulla di irreparabile, ma la vergogna monta inesorabile e il timore di essere considerato un “drogato” da familiari e compagni di lavoro è un peso troppo grande per un ragazzo “normale” come lui. Per questo quella sera del 24 giugno, Cristian non torna a casa, nonostante telefoni alla mamma per avvertirla del ritardo con cui sarebbe rincasato. È l’ultima volta in cui qualcuno sente la sua voce. Poi il ritrovamento della macchina, quella stessa notte, nei pressi del fiume Brenta e il sospetto che qualcosa di irrimediabile sia accaduto comincia a farsi strada, inesorabile. La conferma meno di una settimana dopo, quando il fiume Brenta restituisce il suo giovane corpo privo di vita. È morto per tre grammi di hashish, poco più di uno spinello, una quantità che non uccide nessuno, ma la vergogna in una società perbenista può essere più letale di qualunque sostanza tossica.

12 gennaio 2005, Carcere di Piacenza

Mohamed El Mansouri, 30 anni, marocchino, si impicca nella sua cella della casa circondariale di Piacenza con l’elastico dei boxer. Si è suicidato nel giorno della ripresa del processo, per corruzione tra detenuti e guardie penitenziarie al carcere di Monza per introdurre alcol e droga, che lui stesso aveva in parte innescato con la sua denuncia. Il pm del processo monzese Flaminio Forieri, amareggiato per la tragica notizia, non collega necessariamente il suicidio alla vicenda di Monza. Ma, se di coincidenza si tratta, è senz’altro una coincidenza angosciante. Di certo c’è che l’extracomunitario si era fatto terra bruciata tra i detenuti dopo avere sporto la sua denuncia tanto che da Monza era stato trasferito prima ad Alessandria, poi a Cremona e poi ancora a Piacenza, perché tacciato di essere un “infame”.

20 marzo 2005, Pantelleria (TP)

La storia di Giuseppe Ales è esemplare nella sua drammaticità: giovanissimo siciliano di Pantelleria, arrestato per due germogli di marijuana autocoltivata e sbattuto in prima pagina come un mafioso, si è suicidato per la vergogna nel pomeriggio del 20 marzo, dopo che in mattinata i Carabinieri gli avevano notificato il processo per direttissima che avrebbe avuto luogo il giorno seguente, lunedì 21, presso il tribunale di Marsala.

Il 18 marzo 8 ufficiali dei carabinieri hanno fatto irruzione nell’abitazione di Giuseppe a Pantelleria, in provincia di Trapani, e senza alcun mandato di perquisizione hanno messo a soqquadro l’intera abitazione. In casa c’erano solo i genitori e la nonna di Giuseppe ai quali i carabinieri giustificavano il loro operato con la ricerca di armi, quindi, chiedevano se avessero figli e dove fossero in quel momento, imponendo loro di raggiungerli telefonicamente. La signora Ales ha chiamato Giuseppe che stava lavorando in un terreno a pochi chilometri da casa. Al suo arrivo a casa Giuseppe trovò la madre e la nonna sconvolte. Chiese allora ai carabinieri di fermare la perquisizione dicendo che avrebbe consegnato loro delle piantine di marijuana in suo possesso; piantine appena germogliate, non più alte di 5 cm, che tirò fuori da un incavo nel muro chiuso con una serratura. Il giorno seguente, sabato 19, Giuseppe e il fratello Francesco furono condotti al locale comando dei carabinieri e detenuti fino alle ore 21,00 dello stesso giorno.

Sempre nello stesso giorno il “Giornale di Sicilia” pubblicava un articolo dove venivano resi noti nomi, cognomi e indirizzi di residenza dei diretti interessati ad una operazione antidroga svolta il giorno prima nella provincia di Trapani, tra questi vi era Giuseppe Ales e altri ragazzi che con lui avevano in comune solo la giovane età.

Sembra un paradosso: nella terra in cui il capo dei capi di Cosa Nostra era all’epoca latitante da quarant’anni, in cui il Presidente della Regione veniva rinviato a giudizio per associazione mafiosa, in cui numerosi deputati dell’Udc finivano dietro le sbarre, in cui veniva eletto un senatore di Forza Italia condannato per essere il tramite tra il suo partito e le cosche, in cui è nato un Ministro a cui la cocaina veniva portata direttamente al Ministero. Giuseppe Ales, in realtà, con la sua piccola coltivazione per uso personale, ha sottratto la diffusione della marijuana al monopolistico controllo mafioso.

16 aprile 2005, Carcere di Rebibbia (Roma)

Emanuela Fozzi, 26 anni, muore di varicella nel carcere di Rebibbia Femminile a Roma. La donna, malata di Aids, avrebbe contratto il virus della varicella e, proprio a causa del fisico debilitato e privo di protezioni, le sue condizioni di salute si sarebbero aggravate a tal punto da richiedere il ricovero urgente in ospedale. Tre mesi fa era stata dichiarata incompatibile con il carcere per le sue condizioni ma alla fine di aprile è morta. Nel carcere romano infatti sarebbe scoppiata una vera e propria epidemia: la malattia esantematica ha colpito 13 detenute, di cui tre ricoverate in tre ospedali di Roma, e due agenti penitenziari. «Quella donna non doveva essere in carcere – dice il Garante del Lazio per i diritti dei detenuti Angiolo Marroni – era stata dichiarata incompatibile con la detenzione, ma nulla è stato fatto. La responsabilità è di chi non ha ottemperato alla dichiarazione di incompatibilità con il regime carcerario».

31 maggio 2005, carcere di Venezia

Andrea Fabris, 34 anni, viene ritrovato morto sul pavimento della cella, nel carcere maschile di Santa Maria Maggiore. Il detenuto padovano è stato trovato esanime poco dopo le 20.30, riverso a terra nella cella che condivideva con altri due detenuti: sul corpo numerose ecchimosi. Circostanze quanto meno singolari, che hanno immediatamente convinto la Pm di turno, Maria Rosaria Micucci, a disporre l’autopsia sul corpo del giovane con trascorsi da tossicodipendente e che si trovava in carcere in seguito ad un’inchiesta per droga. Come si è provocato quelle botte? La conseguenza di un’aggressione, avvenuta non necessariamente in cella, o invece le conseguenze del tutto casuali di una caduta dovuta ad un malore?

25 settembre 2005, Ferrara

Federico Aldrovandi aveva 18 anni, li aveva compiuti il 17 luglio. Viveva a Ferrara, periferia sud, zona di Via Bologna, avrebbe preso la patente la settimana successiva, studiava da perito elettrotecnico, suonava il clarinetto, faceva karate, era un mezzo campione vincitore di molte coppe, bravo in matematica e meno in inglese, impegnato in progetto con Asl e scuola per la prevenzione delle tossicodipendenze. Era un salutista, leggeva le etichette di quello che mangiava. E il sabato sera, con gli amici, andava spesso a Bologna, frequentatore di locali, concerti e centri sociali, come tanti ragazzi. Il 25 settembre viene fermato dalla polizia a Ferrara, dalle parti dell’Ippodromo. I giornali locali, a caldo, scrivono di un malore fatale, sembrano alludere a un’overdose. Ma subito saltano fuori particolari inquietanti e contraddizioni. La versione suggerita dalla questura fa a pugni con la relazione di servizio della squadra mobile. E chiunque vedrà il corpo del giovane non riuscirà più a credere a una sola parola della versione ufficiale. Il 20 febbraio 2006 vennero depositati i risultati della perizia medico legale disposta dal Pubblico Ministero, secondo la quale «la causa e le modalità della morte di A. risiedono in una insufficienza miocardica contrattile acuta (…) conseguente all’assunzione di eroina, ketamina ed alcool». Secondo un’indagine medico–legale, depositata il 28 febbraio dai periti della famiglia, dall’esame autoptico la causa ultima di morte sarebbe stata “un’anossia posturale”, dovuta al caricamento sulla schiena di uno o più poliziotti durante l’immobilizzazione. Per quanto riguarda l’assunzione di droghe, la quantità di sostanze tossiche assunte dal giovane era la medesima rilevata dai periti della Procura, ma assolutamente non sufficiente a causare l’arresto respiratorio: in particolare l’alcool (0,4 g/L) era inferiore ai limiti fissati dal Codice della Strada per guidare, la ketamina era 175 volte inferiore alla dose letale, e l’eroina assunta non poteva essere significativa, stante lo stato di agitazione imputato ad Aldrovandi. Inoltre sia la perizia che i risultati delle indagini avrebbero evidenziato un contesto di gravi violenze subite dal giovane durante tutto l’intervento della pattuglia.

Una testimone oculare dell’accaduto confermò le violenze e la compressione fisica esercitata su Federico, emersero tra le altre una lunga escoriazione alla natica sinistra, segno di trascinamento sull’asfalto, ed un importante schiacciamento dei testicoli. Dalle indagini nel frattempo emergevano vari elementi incoerenti, come il fatto che il PM non fosse andato a compiere un sopralluogo sulla scena del decesso; che non fosse stata sequestrata l’automobile su cui, a detta degli agenti, si sarebbe ferito Aldrovandi; che non fossero stati sequestrati i manganelli, di cui due rotti, come confermato dall’on. Carlo Giovanardi in corso di interrogazione parlamentare. L’11 novembre venne depositata la perizia eseguita a Torino, in cui veniva escluso categoricamente un nesso fra la morte e le sostanze psicotrope assunte da Aldrovandi, e secondo la quale la causa del decesso era una morte improvvisa per insufficienza funzionale cardio-respiratoriaemerse un ruolo attivo delle persone che erano con Aldrovandi. Il 6 luglio 2009 il tribunale di Ferrara, giudice Francesco Maria Caruso, ha condannato a tre anni e sei mesi i quattro poliziotti accusati di eccesso colposo nell’omicidio di Aldrovandi. I quattro condannati, grazie all’indulto varato nel 2006, non sconteranno la loro pena.

24 ottobre 2005, Carcere Regina Coeli (Roma)

Antonio Schiano di Colella, 36 anni, tossicodipendente, detenuto da due giorni, muore in una “cella di osservazione” del carcere romano di Regina Coeli. La vicenda è stata resa nota dal Garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni. Secondo le informazioni raccolte dal Garante, l’uomo è arrivato a Regina Coeli “con un referto dell’ospedale Sant’Eugenio, che certificava politraumi a suo carico”.

16 novembre 2005, Opg di Castiglione delle Stiviere (MN)

Katiuscia Favero, di 30 anni, viene ritrovata impiccata con un lenzuolo ad una recinzione, nel giardino interno della struttura: è un suicidio, secondo gli investigatori. Ma la madre non crede a questa versione: «Voglio sapere cosa hanno fatto a mia figlia. Io non credo che si sia suicidata, sospetto che sia stata uccisa». Vuole la verità sulla scomparsa della figlia nella sezione Arcobaleno del manicomio giudiziario di Castiglione dello Stiviere. Non crede al referto ufficiale che parla di suicidio e chiede un’indagine approfondita: intanto, ha ottenuto l’autopsia (i cui risultati si stanno aspettando) e racconta al ministro i dubbi, raccolti in un dossier.

«Mia figlia tra poco sarebbe tornata a casa, invece ho dovuto riportarla giù in una scatola di legno», dice la donna. La ragazza era finita dietro le sbarre già minorenne, poi la sua vita si era complicata sempre di più, persa dentro la spirale della droga. Il 19 agosto 2004 era finita a Sollicciano, il carcere fiorentino. Qui aveva tentato il suicidio, al pronto soccorso aveva tentato di ferire un’infermiera con una siringa, c’era stata una piccola rissa. Poi la svolta che ha segnato definitivamente la sua vita tragica: «Fu violentata da tre addetti – dice la madre – ma il risultato della sua denuncia fu il trasferimento a Castiglione dello Stiviere».

20 novembre 2005, Carcere di Isili (NU)

Rinaldo Ermatosi, cagliaritano di 36 anni, muore nel carcere di Isili in circostanze ancora tutte da chiarire: il decesso, secondo le prime ipotesi dei medici legali, potrebbe essere dovuto a overdose o broncopolmonite. Ma i familiari dell’uomo sostengono che non si drogasse e sollevano dubbi sui modi in cui l’amministrazione carceraria ha gestito le informazioni su quanto avvenuto. La madre Dolores Fanni racconta: «Alcuni detenuti ci hanno raccontato che, alle cinque del mattino, hanno trovato il corpo di mio figlio seminudo in un bagno alla turca. Solo alle nove di sera due carabinieri hanno bussato alla nostra porta: il direttore di Isili voleva parlarci. Così, attraverso un cellulare, ho saputo della morte di Rinaldo. Non c’era un modo più delicato per comunicarmelo?»

24 dicembre 2005, Carcere di La Spezia

Romeo Cantoni, 37 anni, muore in carcere la notte tra il 23 e 24 dicembre 2005. «Oggi sarebbe dovuto uscire, per andare a San Patrignano, invece le sue ceneri sono state messe in un loculo alla presenza del figlio di 10 anni. Romeo è morto per cause “naturali”. Vi chiedo aiuto per poter dire a suo figlio che è stato fatto l’impossibile per salvarlo, come succede in una società civile… eviterò invece di raccontargli i soprusi, le umiliazioni, le botte e le ingiustizie adottate nelle carceri italiane per correggere ed educare chi ha sbagliato». (lettera firmata per la redazione di Ristretti Orizzonti, 28/12/2005).

9 luglio 2007, Forlì

I fatti: giovedì 5 luglio Alberto Mercuriali viene trovato in possesso di una “modica” quantità di hashish. Domenica 8 luglio Alberto Mercuriali è finito sulle prime pagine di alcun quotidiani locali. Lunedì 9 Luglio Alberto Mercuriali si è ucciso col gas di scarico della propria auto.

Ovviamente nessun nome è stato menzionato nell’articolo, ma il giornalista è stato talmente “bravo” e preciso nel riportare alcuni insignificanti dettagli, che la mancanza del nome non è bastata a tener nascosta l’identità del ragazzo.

Un vero e proprio articolo diffamatorio pieno di menzogne che ha dipinto Alberto come un drogato, ma del resto a questo trattamento non era del tutto nuovo, tanto è vero che pochi giorni prima, nel corso della “discreta” perquisizione domestica, gli furono fatte promesse di anonimato mai rispettate. A conferma di ciò ricordiamo tutti le eloquenti foto delle forze dell’ordine scelte con astuzia dai quotidiani, nelle quali i funzionari esibivano orgogliosamente i ridicoli trofei della loro caccia, quasi a voler ostentare la soddisfazione per la cattura di chissà quale narcotrafficante. E’ stata decisamente una “splendida” azione combinata di pressioni psicologiche e mediatiche.

10 luglio 2007, Questura di Milano

Mohammed Darid, 32 anni, marocchino, viene ritrovato morto alle 6 del mattino nella “camera di sicurezza” della Questura di Milano. Era stato fermato la sera prima, in stazione Centrale, dagli agenti della Polfer per spaccio di stupefacenti e trovato. L’autopsia ha stabilito che non c’erano segni di violenza sul suo corpo e la morte è stata causata da un arresto cardiocircolatorio.

15 ottobre 2007, carcere di Perugia

Aldo Bianzino, 44 anni, viene ritrovato morto in cella all’alba di domenica 15 ottobre, nel carcere di Capanne, Perugia. Era stato arrestato il venerdì prima, assieme a Roberta, la madre del più giovane dei suoi tre figli. È successo nel casale sopra Pietralunga, tra Città di Castello, Gubbio e Umbertide. Prima la perquisizione alle 7 del mattino, con il cane antidroga che non trova nulla nel casale. Ma poi, dietro un cespuglio spuntano alcune piante di marijuana. I giornali locali riportano cifre consistenti. Un centinaio di piante ma forse hanno fatto la somma con le piante maschio trovate in fosso secche e inutilizzabili. Roberta e Aldo sono stati portati al commissariato di Città di Castello per le formalità di rito e da lì trasferiti, con un mandato d’arresto spiccato dallo stesso pm che si occupa della morte di Aldo, al carcere di Capanne, struttura di media sicurezza, dove non c’è il regime duro dell’articolo 41, come a Spoleto o Terni. Struttura moderna, nuova, inaugurata da Castelli quand’era Guardasigilli di Berlusconi. Roberta e il suo compagno si sono persi di vista solo all’arrivo in carcere, pomeriggio di venerdì 13. Un avvocato d’ufficio li ha visti il giorno appresso, prima lui poi lei. Aldo era in condizioni normali, preoccupato solo per Roberta, che sarebbe stata poi rilasciata la mattina dopo: persona riservata, colta ed un atteggiamento pacifista nei confronti del mondo. Era questo ad aver portato Aldo in Umbria alla ricerca di una dimensione diversa più vicina alla natura, di vivere il più semplicemente possibile. Il medico legale avrebbe presto escluso l’ipotesi di una morte per infarto. Anzi, avrebbe riscontrato quattro emorragie cerebrali, almeno due costole rotte e lesioni a fegato e milza, ma senza segni esteriori, tanto da lasciare perplessi anche i consulenti incaricati della perizia.

25 luglio 2008, Carcere di Genova

Manuel Eliantonio, 22 anni, originario di Piossasco, è morto il mattino del 25 luglio nella struttura penitenziaria dov’era rinchiuso da quasi cinque mesi. Ucciso, dicono al Marassi, dal gas butano respirato da una bomboletta di gas da campeggio. Suicidio? “Forse un incidente”, lasciano intendere dalla casa circondariale. Spiegando che il butano è spesso adoperato come droga dai detenuti.

Ma la madre di Manuel, Maria, urla: «Mio figlio lo hanno ammazzato. Lo hanno pestato a sangue e lo hanno stordito con psicofarmaci. Lo hanno ucciso, e stanno cercando di coprire tutto». Mostra l’ultima – nonché l’unica – lettera che il figlio le ha inviato dal carcere dov’era rinchiuso per una condanna a 5 mesi e dieci giorni. «Una storia da niente, resistenza a pubblico ufficiale», dice lei.

L’ultimo scritto di Manuel sono due paginette strappate da un quaderno a quadretti su cui c’è lo spaccato di una vita d’inferno. «Cara mamma, qui mi ammazzano di botte almeno una volta alla settimana. Adesso ho soltanto un occhio nero, ma di solito…”. E ancora: «Mi riempiono di psicofarmaci. Quelli che riesco non li ingoio e appena posso li sputo. Ma se non li prendo mi ricattano con le lettere che devo fare». E ancora: «Sai, mi tengono in isolamento quattro giorni alla settimana, mangio poco e niente, sto male».

18 Aprile 2009, Aprilia (LT)

Roberto Pregnolato, 34 anni, impiegato presso l’azienda farmaceutica Abbott, questa mattina si è ucciso lanciandosi dal terrazzo all’ottavo piano di una palazzina, morendo sul colpo. Pregnolato si è ucciso davanti alla convivente per la vergogna dell’arresto e per la paura di poter perdere il lavoro. La notte precedente, lo avevano fermato in auto in compagnia di altre due persone, trovando alcuni grammi di droga. Così i militari hanno immediatamente disposto la perquisizione a casa e sul posto di lavoro. L’uomo, a quanto si è appreso, proprio nel corso dell’irruzione dei Carabinieri si è improvvisamente lanciato dal balcone. La Procura ha aperto un’inchiesta.

21 Luglio 2009, Rovereto (TN)

Stefano Frapporti era un muratore di 48 anni con una mano persa dopo un brutto incidente sul lavoro . Lavorava anche dieci ore al giorno, il suo padrone in cantiere non sa darsi pace. Sarebbero diventati 49 anni il 7 agosto. Aveva comprato due mesi fa la macchina nuova. «In città però ci andava in bicicletta» racconta la sorella Ida. Lo scorso 21 luglio andava in giro proprio in bicicletta quando è stato fermato da due carabinieri in borghese per un’infrazione stradale; lo avrebbero perquisito senza alcun esito, ma comunque è stato portato in caserma, dove con ogni probabilità è stato picchiato dai Carabinieri. «Ci è stato detto dai Carabinieri – racconta Ida – che è stato fermato perchè stava circolando sul marciapiede. E che loro si trovavano lì per tenere d’occhio un bar lì vicino dove ci sarebbe un giro di spaccio di hashish. Successivamente, su indicazione di Stefano, secondo il rapporto dell’Arma, durante la perquisizione nella sua abitazione si sarebbe rinvenuto dell’hashish. A questo punto l’uomo è stato arrestato e portato nel carcere di Rovereto dove gli è stata negata la possibilità di telefonare alla sorella che avrebbe potuto tranquillizzarlo. In carcere gli erano stati tolti i lacci delle scarpe ma non quello della tuta. Circa due ore dopo si è tolto la vita con il cordoncino della tuta da ginnastica che indossava. Nessuno avverte la famiglia fino alle 10 della mattina dopo: «Ci hanno detto che non sapevano come rintracciarci, e che hanno dovuto aspettare il giorno dopo l’apertura dell’ufficio dell’anagrafe. Eppure avevano il telefonino di Stefano, in nostri nomi potevano trovarli lì». Troppe sono le incongruenze, le contraddizioni , le lacune, le omissioni contenute nel verbale di arresto per poterle tacere. Se le attenzioni dell’inchiesta sembrano concentrarsi su ciò che sarebbe accaduto in carcere, per tutti le domande cominciano ben prima: in strada e in caserma. Perchè una persona che non ha precedenti per droga viene fermata e perquisita da due carabinieri in borghese? Chi può credere che qualcuno a cui non viene trovato nulla addosso dichiari allegramente e spontaneamente ai carabinieri di avere dell’hashish…. a casa? Com’è possibile che nel suo appartamento gli uomini dell’Arma trovino dell’ hashish “abilmente nascosto” – così scrivono – sotto un mobile senza spostare null’altro in casa (se non un cassetto: le uniche cose, guarda caso, citate nel verbale di perquisizione e di arresto)? Perché i jeans e gli indumenti intimi non sono stati riconsegnati alla famiglia? Perché nessuno è  stato avvisato dell’arresto di Stefano (cosa che già in caserma si sarebbe dovuta fare)? Cos’è accaduto veramente in caserma?

22 ottobre 2009, carcere di Regina Coeli (Roma)

Verità su Stefano Cucchi… La invocano la famiglia, i legali, la politica, i cittadini: tutti insieme per chiedere di fare luce sulla morte del 31enne romano. Stefano viene fermato nella notte tra il 15 ed il 16 ottobre nel parco degli Acquedotti perché in possesso di venti grammi di hashish, trascorre la notte in caserma e il giorno successivo viene accompagnato a casa per la perquisizione della sua stanza. La sorella Ilaria:  «L’abbiamo visto uscire di casa accompagnato di Carabinieri, che precedentemente tra l’altro avevano perquisito la sua stanza non trovandovi nulla e accompagnato dai Carabinieri in ottime condizioni di salute, senza alcun segno sul viso e non lamentando alcun tipo di dolore».

La mattina del 16, verso le dodici avviene il processo per direttissima, dove il giudice ritiene che il ragazzo debba restare in carcere fino al 13 novembre, data in cui è fissata l’udienza successiva, e viene quindi portato a Regina Coeli. «La mattina del processo per direttissima mio fratello aveva già il viso gonfio di botte, e poi aveva, sotto gli occhi, dei segni neri, quindi segni evidenti di pugni». Sabato sera, intorno alle nove, i Carabinieri informano la famiglia che Stefano si era sentito male e che era stato portato nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini. «Ovviamente i miei genitori si recano immediatamente sul posto e lì viene negato loro alcun tipo di notizia».

Viene detto ai familiari di ripresentarsi lunedì quando arriverà l’autorizzazione a poter vedere il figlio, ma in quel giorno non è data loro possibilità alcuna di vedere il figlio, né di parlare coi medici: viene comunicato solamente che il ragazzo era tranquillo. Stessa cosa il giorno successivo, non vengono nemmeno fatti entrare in reparto e viene comunicato al citofono che sarebbero stati loro a dover chiedere l’autorizzazzione, a Piazzale Gloria, per poter vedere il figlio. L’autorizzazione viene rilasciata per giovedì 22 ottobre ma Stefano muore all’alba di quello stesso giorno.

«L’abbiamo rivisto morto il 22 ottobre all’obitorio: nel momento in cui l’abbiamo rivisto, mio fratello aveva il viso completamente tumefatto e pieno di segni, il corpo non l’abbiamo potuto vedere». Inizialmente la richiesta di vedere il corpo era stata negata: dopo alcune insistenze e una telefonata al Pubblico Ministero, questi ha autorizzato che la famiglia potesse vederlo, ovviamente dietro a un vetro. Otto interminabili giorni durante i quali la famiglia ha tentato invano di vedere il loro caro e di parlare con i medici che lo avevano in cura.

Il Ministro della Giustizia Alfano dice che sarebbe morto in seguito ad una «caduta accidentale dalle scale». Il sottosegretario Giovanardi ne è sicuro: Stefano Cucchi è morto perché «anoressico, drogato e sieropositivo». Parole pesantissime, che per la sorella del ragazzo morto misteriosamente «si commentano da sole». Fra l’altro, la famiglia ha sempre smentito la sieropositività. Giovanardi non concede spazio al dubbio: «Era in carcere perché era uno spacciatore abituale. La verità verrà fuori, e si capirà che è morto soprattutto perché era di 42 chili». Così il sottosegretario alla Presidenza alla trasmissione “24 Mattino” su Radio 24.

Era estremamente magro, Stefano Cucchi, ma non è certo questa la cosa che ha colpito di più quando il suo cadavere è stato analizzato tramite l’autopsia. La famiglia, dopo averle ricevute dagli inquirenti, ha coraggiosamente deciso di pubblicare su internet le foto di ciò che resta del ragazzo.

Aveva una grossa cicatrice lungo tutto il busto Stefano, una ferita circolare molto profonda, ancora aperta sul polpastrello di un dito della mano sinistra. Tante piccole ferite simili in testa, sulle ginocchia, sulle gambe. E, ancora, un livido sotto il labbro, uno vicino al mento, altri ancora all’altezza degli occhi come se i pugni ricevuti fossero stati davvero tanti, forti ed energici. Il corpo, secondo la ricostruzione, appare con il volto tumefatto, l’osso del naso sembra essere fratturato, un occhio rientrato, la mascella fratturata e la dentatura rovinata. Si parla di ecchimosi ed escoriazioni, vertebre fratturate e sangue nello stomaco e nella vescica; a quanto conferma il legale, soffriva inoltre di epilessia.

Dalle verifiche condotte dall’Ufficio del Garante presso le autorità sanitarie e quelle penitenziarie risulterebbe che il pomeriggio precedente alla morte, i medici dell’ospedale Pertini avrebbero avvisato con una relazione allegata alla cartella clinica, il magistrato delle difficoltà a gestire le condizioni del paziente, che avrebbe tenuto un atteggiamento di rifiuto verso i trattamenti terapeutici. In realtà Stefano Cucchi aveva assunto un atteggiamento di protesta perché voleva poter incontrare il suo legale.

E’ assodato che Stefano Cucchi, gracile e minuto, abbia subito a partire dalla notte tra il 15 e 16 ottobre numerose e gravi offese e abbia riportato lesioni e traumi. Stefano Cucchi, come testimoniato dai genitori, è stato fermato dai carabinieri quando il suo stato di salute era assolutamente normale, ma già dopo quattordici ore e mezza il medico dell’ambulatorio del palazzo di Giustizia e successivamente quello del carcere di Regina Coeli riscontravano lesioni ed ecchimosi nella regione palpebrale bilaterale; e, la visita presso il Fatebenefratelli di quello stesso tardo pomeriggio evidenziava la rottura di alcune vertebre indicando una prognosi di 25 giorni. Una volta giunto nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini, Stefano Cucchi non ha ricevuto assistenza e cure adeguate né tanto meno quella sollecitudine che avrebbe imposto, anche solo sotto il profilo deontologico, di avvertire i familiari e di tenerli al corrente dello stato di salute del giovane: al punto che non è stato nemmeno possibile per i parenti incontrare i sanitari o ricevere informazioni da loro. E’ inconcepibile che un cittadino, fermato per un reato di entità non grave, entrato con le proprie gambe in una caserma dei carabinieri e passato attraverso quattro diverse strutture dello Stato (la camera di sicurezza, il tribunale, il carcere, il reparto detentivo di un ospedale) ne sia uscito cadavere.

6 novembre 2009, carcere di Parma

Giuseppe Saladino 32 anni, professione elettricista, problemi di tossicodipendenza e piccoli furti collegati alla necessità di procurarsi i soldi per la sostanza. Per questo era finito i carcere ed in seguito rinchiuso un O.P.G. perché dava segni di “irrequietezza”. La testimonianza della madre: «Mio figlio era sano, me l’hanno ridato morto. Non era un assassino, solo un ladro di polli. Mi devono spiegare perché l’hanno mandato nell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia; è lì che me l’hanno rovinato. Quando l’ho rivisto – spiega la madre del 32enne – era sempre intontito, come assente». Saladino, una volta agli arresti domiciliari continuava la terapia prescrittagli nell’ospedale psichiatrico giudiziario, poi in seguito alla violazione degli stessi era rientrato nel carcere di Parma. Da questo ne è uscito cadavere appena 15 ore dopo il suo ingresso ed in seguito a quello che viene definito arresto cardio-circolatorio. La Procura di Parma ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. Il legale della famiglia punta il dito sui medicinali prescritti all’ospedale psichia­trico, che Giuseppe ha conti­nuato regolarmente a prendere unitamente alla terapia metadonica anche dopo aver lasciato la struttura, in quanto esistono ragionevoli dubbi che possano aver avuto un peso determinante nel decesso.

25 novembre 2009, Carcere del Cerialdo (CN)

Alessio Scarano, 24 anni, torinese, è stato ritrovato agonizzante nella sua cella del carcere di Cuneo. Aveva avuto problemi di droga in passato, ma si trovava in carcere per reati contro il patrimonio. Era stato trasferito pochi giorni prima dal capoluogo regionale nel carcere del Cerialdo. Dopo cena se n’è andato a dormire mentre i compagni di cella giocavano a carte, e pare che nel sonno sia stato colto da un malore fatale. Al controllo serale di un infermiere il giovane e’ stato trovato privo di sensi e nonostante l’intervento del 118 per lui non c’e’ stato nulla da fare. La famiglia solleva pesanti dubbi sull’accaduto; sarà un’inchiesta a stabilire le cause del decesso.

26 Novembre 2009, Carcere di Regina Coeli (Roma)

Simone La Penna, 32 anni, , è morto apparentemente per cause naturali nel centro clinico del carcere romano di Regina Coeli. Lo rende noto il garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. A quanto si è appreso, l’uomo era in carcere per reati legati alla droga ed è stato trovato morto questa mattina nel suo letto. Soffriva di anoressia nervosa e, stando alle analisi del sangue, aveva una carenza di potassio. A Regina Coeli era arrivato dal reparto medico per detenuti dell’ospedale Belcolle di Viterbo. «Si allunga l’elenco dei morti in carcere – ha commentato il Garante – ed è giusto che, anche se sembra una morte naturale, la magistratura faccia chiarezza. In generale io credo che siano maturi i tempi per una riflessione complessiva: il carcere non è certamente il luogo più adatto per i malati gravi».

20 Dicembre 2009, Carcere di Salerno Fuorni (SA)

Marco Toriello, 45 anni, di Eboli è stato trovato cadavere dietro le sbarre; si è tolto la vita la sera del 18 dicembre impiccandosi nella sua cella all’interno della casa circondariale di Salerno Fuorni.

Noto alle forze dell’ordine per reati legati al mondo degli stupefacenti, era stato arrestato nel dicembre dello scorso anno a seguito di una tentata rapina messa a segno ai danni di una fruttivendola di Eboli: prima fu messo in fuga dal compagno della commerciante, successivamente arrestato dai carabinieri della compagnia di Eboli. Malato da tempo di epatite aggravata da altri problemi di salute, Marco era detenuto nella casa circondariale “Fuorni” di Salerno, precisamente nel reparto destinato ai tossicodipendenti. Le sue condizioni di salute, tuttavia, erano delicatissime e lo stesso necessitava di cure costanti. Il magistrato, dottoressa Guglielmotti, dovrà decidere se aprire un fascicolo sulla morte dell’uomo disponendo l’esame autoptico così come è stato richiesto dai familiari della vittima che hanno denunciato una serie di perplessità circa la natura del decesso del congiunto, oppure liberare la salma. L’esame esterno, effettuato dal medico legale Giovanni Zotti nella serata di venerdì, come già detto non lascerebbe adito a dubbi. Toriello si è tolto la vita legandosi una corda al collo. I familiari chiedono però chiarezza in relazione ad alcuni lividi che il giovane presenterebbe sulla schiena. Nulla, inoltre, stando alla denuncia degli stessi, lasciava presagire un atto così estremo. Alcuni giorni fa il 45enne aveva avuto un colloquio con la figlia con la quale si era ripromesso di rincontrarsi il 23 dicembre per gli auguri di Natale.

Materiale parzialmente tratto dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti http://www.ristretti.it/

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